Diritti umani
Quanto costano veramente i vestiti che indossiamo?

Quanto costano veramente i vestiti che indossiamo?

Trovandovi in un negozio di abbigliamento davanti a una t-shirt venduta a 4.99 euro, vi siete mai chiesti quanto sarà costata produrla? Probabilmente si, e sappiate che è costata pochissimo, circa il 4% del prezzo di vendita1. Il vero prezzo, e salato anche, lo pagano i lavoratori che l’hanno prodotta e l’ambiente che ci circonda.

Qual è l’impatto ambientale della moda?

Quello della moda è uno dei settori più impattanti per l’ambiente. Contribuisce all’inquinamento in molti modi ed è uno dei settori che emette più gas serra. Il problema è peggiorato dal fatto che la maggior parte degli indumenti proviene da Paesi con leggi ambientali assenti o molto permissive.

Andiamo ad analizzare, nel dettaglio, le varie problematiche ambientali legate al settore moda.

Emissioni di gas serra

Il settore della moda è responsabile per il 10% di tutti i gas serra emessi mondialmente ogni anno. La produzione dei tessuti consuma molta energia, ed è spesso effettuata in paesi che utilizzano prevalentemente combustibili fossili. Il consumo di energia è maggiore per la lavorazione di tessuti a base sintetica – come il poliestere – che rappresentano il 51% sul totale dei tessuti prodotti. Ad esempio, per produrre un chilo di poliammide sono necessari 160 kWh4. Anche la produzione di fibre tessili naturali non è esente dall’emissione di gas serra, seppur tuttavia in maniera molto minore di quelle sintetiche2.

Il trasporto è un’altra grande fonte di emissioni, visto che gli indumenti vengono spesso prodotti nel sud est asiatico o in Cina, per poi essere smistati in Europa o in USA. Le attuali logiche di mercato potrebbero portare del cotone prodotto in Brasile a essere lavorato in tessuto da una fabbrica cinese, per poi finire in Bangladesh, dove da quel tessuto verrà ricavata una maglietta, che poi sarà venduta negli Stati Uniti. Possiamo stare sicuri che la maglietta che abbiamo addosso ha viaggiato già moltissimo, anche prima che la portassimo con noi in vacanza. Può anche essere che sia stata trasportata con degli aerei cargo, aumentando ancor di più la sua impronta ecologica.

Consumo idrico

L’ industria tessile utilizza un enorme quantità di acqua, arrivando a consumarne 79 trilioni di litri ogni anno, che corrispondono al 20% del consumo idrico mondiale. Per produrre una tonnellata di materia tessile sono necessari ben 200 tonnellate d’acqua. Questo enorme consumo di acqua si ha prevalentemente nella coltivazione della materia prima. Ad esempio, nella produzione di una t-shirt, il 91% del consumo di acqua è dovuto alla coltivazione del cotone3.

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cotone

Il dato globale è impressionante, ma dobbiamo considerare il fatto che l’industria manifatturiera e produttiva del settore tessile è localizzata in determinate zone di Cina, India, USA, Brasile e del sud asiatico. In queste zone, l’incidenza di questo consumo idrico è ancora maggiore, andando a provocare scarsità d’acqua potabile e modifiche all’ambiente locale. Ad esempio, si stima che il solo consumo di cotone da parte dei paesi europei, abbia portato alla diminuzione del 20% del lago d’Aral, in Kazakistan4.

Inquinamento delle acque da microplastiche

Le microplastiche sono delle particelle di materiale plastico di dimensione millimetrica che possiamo trovare in tutti i corsi d’acqua e mari mondiali. Queste sono molto pericolose per la fauna marina e per l’ecosistema in generale. Del totale di queste microplastiche presenti negli oceani il 35% – 190.000 tonnellate all’anno – è attribuibile al mondo della moda. I vestiti realizzati in poliestere o acrilico rilasciano le microplastiche quando vengono lavati, e il 40% di queste microfibre, non venendo trattenuto dagli impianti di depurazione, finisce in mare. La microplastica finisce anche nell’acqua che beviamo e in ciò che mangiamo5.

Inquinamento da prodotti chimici

L’inquinamento da prodotti chimici riguarda sia l’ambiente, che le persone che lavorano negli stabilimenti manifatturieri o anche solo quelle che abitano nelle vicinanze. L’uso dei pesticidi nelle coltivazioni delle piante atte a produrre la fibra tessile, e l’uso di prodotti chimici nella produzione di tessuti o indumenti, sono tra le maggiori cause di inquinamento sia umano che ambientale.

Il 6% dei pesticidi e il 16% degli insetticidi viene utilizzato nella coltivazione del cotone. Questi pesticidi sono spesso molto pericolosi per l’uomo e possono causare varie malattie, tra cui cancro, problemi respiratori, gravidanze interrotte e problemi nei bambini. Si stima che, nel mondo, l’uso di pesticidi sia responsabile di oltre mille morti al giorno. I pesticidi filtrano anche nel terreno, riducendone la fertilità, andando a compromettere la biodiversità, distruggendo i microrganismi, piante e insetti6.

L’industria tessile utilizza circa 15000 diversi tipi di prodotti chimici e spesso questi prodotti non vengono smaltiti nel modo corretto, andando ad inquinare le falde acquifere. In Europa, dove esistono leggi che ne regolamentano l’utilizzo, si consumano comunque 466 g di prodotti chimici per chilogrammo di materiale tessile prodotto. Consideriamo che l’80% degli indumenti venduti in Europa sono prodotti all’estero, dove spesso la normativa è meno restrittiva e i controlli minori. Uno studio svedese ha analizzato questi prodotti chimici e ne ha confermato la quasi totale pericolosità ambientale, trovando anche prodotti cancerogeni7.

Produzione di rifiuti

Ogni anno vengono mandati in discarica 39 miliardi di tonnellate di rifiuti tessili, e solo 14 tonnellate di questi vengono riciclate. In Italia solo l’11 % degli indumenti gettati viene riciclato, e pensando che in media a testa buttiamo 14 kg di rifiuti tessili, il problema è imponente. Ma non è tutto, una buona parte di spreco viene anche dalla fase di produzione, con una percentuale di scarto del 20%10. Vi è anche il problema delle merci invendute, che in un sistema commerciale basato sulla fast fashion crea enorme accumulo di materiale invenduto, ma che, ormai considerato fuori moda, viene destinato all’inceneritore. Ad esempio, il marchio svedese H&M, ha dichiarato di avere in magazzino 4.3 miliardi di dollari di indumenti invenduti8.

Chi paga per questa moda veloce e a basso costo?

Abbiamo capito che l’ambiente è particolarmente maltrattato, ma non è l’unico. I lavoratori del settore della moda e le popolazioni locali che vedono espropriare o avvelenare le loro terre, sono le altre vittime di questo enorme business.

Trattamento dei lavoratori

Mentre il fatturato dei tre più grandi gruppi nella moda cresce sempre di più, e ha superato i 60 miliardi di euro, i lavoratori sono tra quelli pagati meno. Si stima che solo lo 0.6 % del costo di una t-shirt vada a finire nelle tasche del lavoratore che l’ha prodotta12. Ad esempio, in Bangladesh, il salario medio di un lavoratore del settore tessile è intorno ai 70 euro, che è 5 volte meno il salario considerato dignitoso in quello stesso paese9. La situazione è simile anche negli altri paesi dell’Asia e in quelli dell’Europa orientale.

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fabbrica tessuti

Un’altra problematica è quella della condizione contrattuale dei lavoratori. I contratti sono spesso di durata mensile e pagati il minimo possibile. Se quelli che prendono lo stipendio minimo guadagnano poco, quelli che lavorano senza contratto ricavano ancora meno. Spesso i lavoratori vengono assoldati tra la massa di immigrati irregolari i quali, non potendo lavorare con un regolare contratto, si espongono a sfruttamento lavorativo.

La discriminazione di genere è una triste ma dura realtà in questo settore. Sui 60 milioni di lavoratori, l’80% sono donne. Donne a cui spesso vengono negati i diritti per via della discriminazione di genere radicata nella cultura e nelle tradizioni di tanti Paesi produttori. L’assenza di diritti non si ferma solo all’assenza di assistenzialismo, straordinari obbligatori non pagati e mancanza di qualsiasi tipo di congedo, ma va oltre, arrivando alle molestie, sia fisiche che verbali. In Bangladesh il 60% delle addette al settore tessile dichiara di aver subito molestie, nel 60% dei casi si tratta di molestie sessuali10.

Appropriazione dei terreni

Con il termine inglese land grabbing, si intende l’appropriazione di vasti terreni agricoli da parte di soggetti internazionali nei Paesi in via di sviluppo. Il fenomeno è assai presente nell’allevamento di pecore e nella coltivazione del cotone. Vi sono stati diversi casi documentati sia in Sud America che in Africa, ma vi parlerò di uno in particolare, perché molto significativo.

In Patagonia la società italiana Benetton, nel 1991, ha acquistato 900.000 ettari di terreno – una superficie grande come le Marche – per 50 milioni di dollari.In questi territori risiedeva da secoli la comunità dei Mapuche. La multinazionale vi ha installato i propri pascoli di bestiame per produrre lana e ha scacciato gli abitanti indigeni. Dopo decenni di proteste e occupazioni i Mapuche hanno portato al loro caso rilevanza giornalistica, ma ancora nulla è stato fatto11.

Cosa possiamo fare?

Ora vi sentite un po’ in colpa per tutte quelle magliette che avete comprato perché erano carine e costavano poco? Fermatevi se state buttando via tutto il guardaroba per vestirvi con tonache di juta autoprodotte. Fortunatamente, se il commercio è la causa del problema ci consente anche di trovarne la soluzione. L’acquirente finale siamo noi e quindi la scelta è nelle nostre mani. Il business della moda andrebbe totalmente ripensato, ma non possiamo aspettare che siano la politica o l’economia stessa a farlo.

Consuma meno

In Europa si comprano in media, ogni anno, 25 kg di prodotti tessili. Praticamente compriamo una valigia piena e dovremo anche pagare il supplemento per imbarcarla in aereo. Sono troppi, e spesso li usiamo solo qualche volte prima di dimenticarcene!

Dobbiamo ripensare all’utilizzo che ne facciamo e ridurre il consumo. 

Riutilizza, scambia, ripara, ricicla.

Il riciclo è importante ma deve essere l’ultima risorsa. Dobbiamo cercare di utilizzare al massimo gli abiti che abbiamo e se non gli vogliamo più possiamo pensare di scambiarli, venderli o donarli. Esistono ormai numerose piattaforme online che vendono e comprano abiti usati. Diverse associazioni organizzano swap party, dove si scambiano gratuitamente vestiti che non si usano più e si fa anche conoscenza. Se in tuoi vestiti si sono danneggiati, valuta la possibilità di farli riparare, o riparali tu stesso. Riparando ciò che hai, gli darai una seconda vita e risparmierai pure.

Se ormai hai provato di tutto e non ne vuoi più sapere di quel vecchissimo maglione, allora assicurati di riciclarlo negli appositi contenitori. La tecnologia del riciclaggio di indumenti ha messo appunto sistemi molto innovativi, ma non può fare nulla se i vestiti finiscono in discarica.

Compra bene

Negli ultimi 20 anni i prezzi degli abiti sono scesi del 30%, i vestiti costano meno ma abbiamo visto chi ne ha fatto le spese. Ogni acquisto che fai è una piccola indicazione che dai al mercato, orientandolo verso un prodotto o l’altro. Se tutti volessero prodotti realizzati in maniera equa e sostenibile il mercato, con le sue peculiari logiche e tempistiche, andrebbe a soddisfare questa domanda.

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negozio vestiti

Ispeziona attentamente l’indumento che stai comprando, che sia robusto e preferibilmente realizzato con materiali naturali. Informati sull’azienda che l’ha prodotto e verifica le sue politiche a riguardo dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Esistono numerosi negozi fisici o online che vendono indumenti realizzati da compagnie eticamente responsabili. Potrebbe essere che il prodotto costi di più, ma ne vale davvero la pena!

A cosa dobbiamo arrivare?

Dobbiamo arrivare a un mercato più trasparente e più equo. Un sistema dove si sappia esattamente come è stata prodotta una data merce, e come sono stati trattati tutti i lavoratori coinvolti e l’ambiente. Ci vuole una legislazione che tenga conto anche dei costi nascosti, come il danno ambientale o l’inquinamento. La nuova legislazione deve controllare anche le grandi multinazionali della moda, così che queste vengano ritenute responsabili per i prodotti e le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche di manifattura. Serve una spinta forte verso un’economia circolare e verso una minore sovrapproduzione.

Il cambiamento deve venire da tutti i vari attori presenti in questo mercato, la politica, il venditore, la grande società di abbigliamento e la fabbrica. Ma il cambiamento più importante deve venire da noi, ultimi nella catena della distribuzione ma anche i più decisivi nell’intero processo.

Fonti:
1) https://cleanclothes.org/poverty-wages
2) Niinimäki K., Peters G. , Dahlbo H., Perry P., Rissanen T., Gwilt A., The environmental price of fast fashion, 2020
3) Ibidem.
4) Ibidem
5) Ibidem.
6) Ibidem
7) Ibidem.
8) Paton E., H&M, a Fashion Giant, Has a Problem: $4.3 Billion in Unsold Clothes, 2018
9)https://cleanclothes.org/poverty-wages
10) Ibidem
11) Balocco F., Patagonia, la lotta dei Mapuche contro i Benetton, 2017

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